Da Goldoni ad Arbos. Tutte le tappe di un sogno diventato incubo in soli 5 anni
I capitali cinesi e l’esperienza di un team italiano si uniscono. Lo fanno per creare un nuovo player internazionale della meccanica agricola, salvando al contempo un glorioso marchio come Goldoni. In soli cinque anni la favola si è trasformata in incubo e ancora una volta lo spettro del fallimento aleggia sul brand modenese. Per capire […]
I capitali cinesi e l’esperienza di un team italiano si uniscono. Lo fanno per creare un nuovo player internazionale della meccanica agricola, salvando al contempo un glorioso marchio come Goldoni.
In soli cinque anni la favola si è trasformata in incubo e ancora una volta lo spettro del fallimento aleggia sul brand modenese. Per capire meglio come si è svolta la vicenda e perché si è giunti nuovamente sull’orlo del baratro proviamo a partire dall’inizio.
Crack Goldoni. Tutto ha inizio nel 2015
Il 2014 è un anno nero per la meccanizzazione agricola. Sull’onda lunga della crisi economica e finanziaria del 2009, il mercato trattori raggiunge il minimo storico. Chiude infatti a poco più 18 mila unità. Chiude, quindi, lontano anni luce dai fasti dell’era pre crisi in cui si viaggiava stabilmente sopra le 30 mila.
La Goldoni vendette quell’anno circa mille trattori .
Questo, grazie anche a un accordo di fornitura con New Holland. Ma il declino era ormai in atto da anni, con l’azzeramento di piani di investimento nello storico stabilimento di Migliarina di Carpi. Anche l’intera gamma di prodotti, sebbene affidabile, perdeva inesorabilmente terreno dai competitor sul piano dell’innovazione.
Goldoni cessa di fatto la produzione agli inizi del 2015. A giugno presenta la richiesta di concordato preventivo. I 270 dipendenti coinvolti da anni nell’utilizzo di ammortizzatori sociali temono fortemente che non vi siano possibilità di salvare l’impiego. Serve un miracolo per mettere una pezza a una situazione che sembra ormai irrecuperabile. Situazione che lascia presagire una triste fine per un marchio che ha fatto la storia della meccanizzazione agricola in Italia e non solo.
Il salvataggio Cinese. Entra in scena Lovol
Quel miracolo però si avvera, assumendo le sembianze di un colosso asiatico, La Lovol Heavy Industry Ltd con sede a Weifang, provincia dello Shandong nella Repubblica Popolare Cinese. Stiamo parlando di una realtà industriale da oltre 15.000 dipendenti. Realtà che fatturava nel 2013 qualcosa come 3 miliardi di euro all’anno. Realtà che produce circa 150.000 trattori e 60.000 mietitrebbie.
Lovol aveva iniziato già da anni ad affacciarsi sui mercati europei. Lo faceva attraverso la Lovol Europe Engineering che, proprio nella sede bolognese (ce n’era anche una in Germania dedicata allo studio di applicazioni da cantiere per camion e veicoli pesanti), aveva convogliato alcune delle migliori menti del settore. Sotto la guida di Andrea Bedosti (forte di una lunga carriera manageriale prima in Landini, poi in Same Deutz-Fahr e in Merlo) svolgeva da un paio d’anni attività di ricerca e sviluppo in materia di industrializzazione nel campo della meccanizzazione agricola.
Ma soprattutto, nel gennaio del 2015, acquisiva la MaterMacc di San Vito al Tagliamento (Pordenone). Realtà specializzata nella produzione di seminatrici, spandiconcime e macchine combinate per la lavorazione del terreno.
Ai tempi intervistammo Massimo Zubelli, marketing e Sales Vice President di Foton Lovol. Proprio lui confermava «la tendenza recente delle aziende cinesi del “nuovo corso” di accedere direttamente alla tecnologia occidentale. Questo, attraverso investimenti diretti in ricerca e sviluppo. Oppure, tramite piani di acquisizione e partnership con aziende occidentali».
A quel punto le voci di corridoio sul possibile interessamento di Lovol per Goldoni iniziarono a rincorrersi. Questo anche perché nel frattempo il gruppo cinese si era già intascato la proprietà dello storico brand di mietitrebbie Arbos, con la chiara intenzione di risfoderarlo all’occorrenza.
Nasce Lovol Arbos Group Spa
Ed ecco che nel dicembre 2015 viene presentato il piano di risanamento della Goldoni. Piano fondato sull’entrata nella compagine sociale della neonata Lovol Arbos Group Spa, controllata al 100% da Lovol Heavy Industry Ltd.
«Si tratta di un passo fondamentale per il salvataggio e il rilancio industriale della storica Azienda di Migliarina di Carpi».
Questo scrivevano i principali quotidiani dell’area emiliana e le riviste di settore. Grazie soprattutto a un finanziamento interinale autorizzato già a metà novembre dal Tribunale di Modena e tempestivamente reso disponibile da Lovol Arbos Group Spa. Finanziamento che consentiva il riavvio delle linee di montaggio già dalla seconda metà del mese di gennaio 2016 dopo 14 mesi di stop.
Il programma era molto chiaro così come l’intenzione di attaccare il mercato Italiano. Più in generale, quello dell’area mediterranea, sulla scia di quanto fatto dalla giapponese Kubota, ormai saldamente tra i principali player di casa nostra ed europei.
Goldoni. Salvataggio e rilancio
Il piano di salvataggio di Goldoni tracimava euforia da tutti i pori e si componeva di tre punti fondamentali.
In primis, l’iniezione di risorse finanziarie finalizzate alla immediata ripresa produttiva per rassicurare allo stesso tempo dipendenti, fornitori e clienti sul futuro industriale della società. Poi, la ricapitalizzazione significativa della Goldoni. Questa, volta a dare la necessaria solidità patrimoniale in grado anche di soddisfare i creditori al momento dell’omologazione del piano. E, con il chiaro fine di confermare e salvaguardare i rapporti di collaborazione per il futuro. Infine, un business plan triennale che prevedeva il pieno rilancio dell’azienda. Come? Attraverso:
- l’ammodernamento e l’allargamento della gamma dei prodotti
- il radicale cambiamento dell’organizzazione e delle tecniche produttive
- l’espansione ed internazionalizzazione della rete di distribuzione
Insomma, si stava assistendo alla rinascita di Goldoni.
Tutto lasciava presagire l’ingresso di un nuovo ‘big’ nel comparto macchine agricole, forte di know-how italiano e di ingenti capitali cinesi. D’altronde già nel 2015 dalla moda, all’alimentare e ai motori esempi di brand italiani con passaporto straniero ce n’erano eccome; Bulgari, Parmalat, Valentino e Ducati solo per citarne alcuni.
Da società di progettazione, Lovol Arbos Group assume i connotati di una holding industriale
Questa fatturerà, già nel 2016, 60 milioni di euro con un organico attivo in Italia di 360 dipendenti cui se ne aggiungono altri 100 in Cina.
L’impegno finanziario iniziale per la ricapitalizzazione di Goldoni costerà 45 milioni. Avrebbe dovuto portare al lancio di nuove gamme specializzate da affiancare al primo vero progetto Arbos, gli utility della gamma 5000, realizzati in Cina e assemblati in Italia sugli standard europei. Questi ultimi avrebbero aperto la strada ai più potenti 6000 e 7000 pronti per fine 2017. Mentre, nel 2018, avrebbe debuttato la prima mietitrebbia, completando di fatto la full-line bianco verde.
Tutto ciò viene annunciato in grande stile nel luglio 2016. Già all’Eima dello stesso anno, la nuova realtà si presenta con un mega stand in cui spiccano la gamma di specializzati made in Goldoni nella duplice casacca arancione e verde Arbos e i primi prototipi della gamma 5000.
Costruire una rete vendita. La sfida più importante
Non si può dunque negare che Lovol di milioni ne ha investiti parecchi per seguire un piano industriale a firma italiana. Forse quello che appariva chiaro a molti addetti ai lavori, e cioè le reali difficoltà nell’inserirsi in un mercato stantio e denso di competitor come quello europeo (per non parlare di quello italiano) e per di più senza una rete vendita all’altezza della concorrenza (gran parte dei dealer Goldoni erano stati assorbiti dai competitor nei mesi di chiusura), lo era meno per gli investitori che hanno continuato a credere nel progetto.
Ne sono testimonianza l’ampliamento delle linee di produzione dello stabilimento di Migliarina di Carpi dove viene anche inaugurato nel 2017 il nuovo Engineering Center Arbos. Il gruppo chiuderà l’anno con un fatturato attorno agli 80 milioni di euro garantito soprattutto dal buon andamento delle attrezzature MaterMacc e dalla ripartenza di Goldoni, ma la dirigenza dichiara di poter raggiungere i 210 milioni di euro entro fine 2020 con il grosso della fetta (circa 175 milioni) equamente suddivisi tra specializzati e trattori da campo aperto.
L’anno dei ‘trattori di carta’
E qui nascono le prime incongruenze. Nel 2017 il gruppo Arbos secondo i dati del ministero immatricola la bellezza di 2.600 trattori contro i 771 dell’anno precedente. Il trattore più venduto in Italia con 489 unità risulta essere il Lovol 504 made in Cina, praticamente sconosciuto ai farmer italiani, e nella classifica dei primi dieci compaiono altri quattro Goldoni.
Sulla carta Arbos è il terzo gruppo in Italia per vendite di trattori dietro a Cnh e Same Deutz-Fahr, ma soprattutto davanti a competitor del calibro di Landini, Agco, John Deere, Kubota e Claas. Facile intuire che la stragrande maggioranza di quei Lovol il campo non l’hanno mai visto. Come è possibile? Il 2017 verrà ricordato appunto come l’’anno dei trattori di carta’.
L’ingresso della Mother Regulation, entrata in vigore a gennaio 2018, ha spinto le industrie costruttrici a liberarsi in tutti i modi possibili degli stock di trattori già prodotti. Prima della fatidica mezzanotte del 31 dicembre molte macchine invendute sarebbero state immatricolate direttamente dai concessionari o dalle case costruttrici senza essere consegnate ad alcun cliente (o addirittura senza essere state ancora del tutto assemblate) e la maggior parte di esse sarebbero poi finite all’estero o vendute alle aste.
Chi più chi meno ci hanno ‘giocato’ tutti, tanto che il mercato trattori è lievitato nel 2017 a 22.705 macchine immatricolate contro le 18.341 del 2016, per poi tornare a 18.400 nel 2018, ma è evidente che chi l’ha fatta ‘più grossa’ è proprio Arbos che, appena nata, non avrebbe mai potuto raggiungere quei numeri. Anche se più volte interpellati sulla questione i vertici di Arbos non hanno mai fornito una risposta convincente sulle reali motivazioni del boom virtuale di vendite, generando il sospetto che l’exploit servisse più che altro come specchietto delle allodole per i finanziatori cinesi in cerca di conferme sulla bontà degli investimenti.
L’abbandono del progetto full line
Proprio il 2018 si rivelerà l’anno cruciale per le sorti dell’azienda. La caccia ai concessionari sembra non dare i risultati sperati, così come i progetti di vendita diretta, ma soprattutto la gamma simbolo della nuova azienda, ovvero la 5000 non decolla.
I primi modelli consegnati ai concessionari sono troppo basici soprattutto a livello di cambio (hi-Lo e inversore meccanico) e le versioni successive con powershift e inversore elettroidraulico sembrano non convincere per affidabilità. A dir la verità noi la macchina l’abbiamo provata e se l’è anche cavata egregiamente ma il problema più grosso, almeno in Italia, è la concorrenza spietata in un segmento di potenza, attorno ai 100 cavalli, storicamente dominato dai player nazionali, forti di una rete vendita capillare e di un servizio assistenza impeccabile. Nel frattempo la gamma 6000 sembra uscita dai piani di lancio e lo stesso vale per il progetto mietitrebbie, mentre la 7000 che doveva già essere a listino a fine 2017 continua a figurare come prototipo in esposizione alle fiere.
L’inizio della fine. Goldoni di nuovo verso il fallimento
Morale, senza full line e senza ‘trattori di carta’ Arbos chiude il 2018 con 660 macchine immatricolate (erano 771 nel 2016) di cui 632 a marchio Goldoni e 28 Arbos, inclusi i compatti 3000 spediti direttamente dalla Cina. Non trapelano comunicazioni ufficiali sui fatturati ma è lampante che la tabella di marcia verso gli oltre 200 milioni di euro da consolidare entro il 2020 sia inevitabilmente compromessa.
Il 2019 segue la falsa riga del 2018 a livello di prodotti con l’unica variante che MaterMacc e Goldoni si avviano ad abbracciare definitivamente il marchio Arbos e la livrea bianco verde con non pochi malumori da parte di concessionari e clienti molto più affezionati ai brand nativi e consolidati piuttosto che a un marchio ormai per molti dal futuro quantomeno incerto.
A poco sembra servire ancora una volta il ‘sospetto’ balzo in avanti di immatricolazioni a fine anno in un’area territoriale decisamente contenuta. Già a Fieragricola 2020 con il Covid alle porte, appaiono segnali inconfutabili della marcia indietro della casa madre cinese, intenzionata a chiudere definitivamente i rubinetti e mollare un progetto di cui restano solo i debiti. Il resto è storia di questi giorni con il via libera del tribunale al concordato liquidatorio e un doppio incontro sulla vertenza presso il Ministero dello sviluppo economico con esiti tutt’altro che favorevoli.
Sindacati e politici del territorio gridano giustamente allo scandalo, incolpando Lovol di una fuga irresponsabile che mette a repentaglio le sorti di 220 lavoratori, ma è francamente difficile non considerare le falle di un progetto di fatto a ‘mente italiana’ clamorosamente naufragato in meno di cinque anni.